Come augurio vigiliesco, vi condividiamo questo breve racconto della nostra autrice e irrinunciabile collaboratrice Federica Soprani. La sua penna è tra le più eleganti nel panorama italiano e i suoi personaggi hanno sempre un dannato motivo per fare le cose.
E in più la Chimère è tra i protagonisti dei nostri Pulp Magazine Lost Tales: Sword&Sorcery, che vi consiglio di comprare (e non perché li vendo io. ok, anche perché li vendo io).
Buona lettura e Buon Natale!
L’altro Natale
Noel noueau est venu,
De nos peres attendu,
De paradis descendu,
Ou?
Bas en terre
Pour acquerre,
Ce qu’Adam avoit perdu.
(Il natale nuovo è venuto
Quello atteso dai nostri padri
Dal paradiso è sceso
Dove?
Sulla terra in basso
Per acquisire
Ciò che Adamo aveva perso)
Aveva piovuto ininterrottamente per tre giorni e tre notti. La strada calpestata da innumerevoli passi si era sciolta in fango, e appariva più simile a un campo arato di fresco per accogliere la nuova semina.
Il gelo della notte aveva poi stretto quei grumi di terra umida e viscida in una morsa di ghiaccio, cristallizzandoli in sculture fantastiche protese verso il cielo. La luna riverberava su quei monoliti di melma solidificata, che parevano a tratti forme grottesche di uomini intrappolati che tentassero di divincolarsi, di emergere dalla loro prigione. Ma nessuno si attardava lungo la via per poter raccogliere il muto grido di quelle membra straziate.
Quasi nessuno.
Era il crepuscolo della Vigilia di Natale. Chi aveva una casa vi si era già rifugiato, lasciando fuori la notte col suo fango, il suo gelo e i suoi mostri. Chi una casa non l’aveva, o ne aveva una, ma troppo distante per poterla raggiungere, aveva cercato riparo in una locanda, davanti a un fuoco straniero, ma pur sempre caldo, tra sconosciuti che si guardavano con diffidenza gli uni con gli altri. Sugli usci serrati mani infantili avevano appeso ghirlande di agrifoglio intrecciato e dalle imposte chiuse di alcune dimore giungeva il vociare sommesso di chi ancora quella notte attendeva il miracolo di tutti i miracoli.
Il prete del villaggio guardava con apprensione le candele consumarsi nella loro stessa cera nei tanti candelieri e porta-ceri disposti lungo l’unica navata della piccola chiesa di campagna. Fosse dipeso da lui avrebbe utilizzato solo candele di sego. Inoltre ne avrebbe accese molte meno, ché era noto che le tenebre favorivano la meditazione e il raccoglimento, e avrebbe atteso l’appropinquarsi dell’orario stabilito per la Santa Messa di Natale per dare fuoco agli stoppini, evitando quell’inutile dispendio di luce. Ma il giovane Abate di Eguisheim aveva preteso che quella notte tutte le chiesette della regione venissero illuminate fin dal crepuscolo da bianche candele di cera d’api. Lui stesso si era recato di villaggio in villaggio per farne dono ai prelati locali, raccomandandosi che esse venissero accese e sostituite man mano che si spegnevano.
Il prete aveva pensato che fosse davvero un inutile spreco, e avrebbe preferito che l’Abate gli avesse fatto dono di qualche forma di formaggio, di un paio di capponi e magari di una botte di quel buon vino che veniva prodotto entro le mura dell’Abbazia. Invece quel tanghero si era presentato col suo sorriso radioso, la barba e i capelli lunghi che lo facevano apparire come Cristo in persona all’ingresso di Gerusalemme, e aveva dispensato provviste ai contadini, legna da ardere ai più bisognosi e perfino dolciumi per i mocciosi cenciosi che gli sciamavano intorno, aggrappandosi ai finimenti scarlatti della sua giumenta bianca.
E a lui, fedele suddito della chiesa, aveva dato solo candele di cera per la notte di Natale!
Gli era toccato andare a pretendere un’oca nella fattoria al limitare della foresta, per non rischiare di trascorrere la sera della Vigilia a digiuno. Sentiva già provenire dalla canonica il profumo della pietanza arrostita nel lardo dalla solerte perpetua, mentre si apprestava a serrare le porte della chiesa, domandandosi ancora se fosse il caso di lasciare tutto acceso, quando percepì una presenza alle proprie spalle. Si voltò, immaginando che una delle sue pecorelle avesse deciso di portargli in dono una forma di pane, o una caciotta, o dei dolci. Trasecolò e poi inorridì, quando vide che non era così. D’istinto si portò la mano alla gola, affondando le dita nella pappagorgia, come a volerla proteggere da un’eventuale aggressione.
“Che fate qui? Andate via, non c’è niente per voi!”
Gli stranieri accolsero il suo ammonimento con l’aria di non comprendere. Che fossero stranieri era evidente. L’uomo sembrava fatto della stessa melma scura della strada, tanto nera e lucente appariva la sua pelle. La luce delle candele l’accendeva di riflessi blu, mentre si annullava nelle iridi liquide colore dell’onice. Un demone dell’inferno, fatto e finito, con capelli lanosi e crespi coperti da uno straccio! Quanto alla donna che lo accompagnava… Il prete provò l’istinto di farsi il segno della croce, ma si trattenne. Non perché vi fosse in lei qualcosa di così spaventoso da suscitargli quel reverenziale timore. Si trattava anzi della creatura più bella su cui avesse mai posato lo sguardo, il viso cesellato come di una Vergine bambina, non fosse stato per la pelle ambrata, i grandi occhi scuri da cerva. Gli sorrideva dolcemente, le labbra delicate come petali.
“Andatevene, pagani. Questa è la casa di Dio, non è posto per voi” ribadì con risolutezza, e per dare maggiore enfasi alle proprie parole sbatté le porte della chiesa.
Questa volta lo straniero parve comprendere, ma probabilmente lo aveva già fatto prima. Una smorfia gli attraversò il volto e nel suo sguardo balenò un guizzo di rabbia che fece pentire il prete della propria veemenza.
“Lei ha bisogno di riposare. Fa freddo. Cerchiamo un riparo solo per questa notte.”
Aveva una voce profonda, l’uomo dalla pelle scura, e parlava francese meglio di molti contadini che il prete conosceva. A dimostrazione che il demonio sa ingegnarsi assai bene quando tesse le sue trame.
Guardò lo straniero chiedendosi quanto potesse permettersi di essere brutale nella sua risposta, senza correre rischi. Poi l’occhio gli cadde sul ventre della ragazza. Di bene in meglio: un demone e una strega, e la strega portava in grembo il figlio del demonio!
“Questa è una chiesa, non una bettola. Andatevene al prossimo villaggio, lungo la strada. Lì troverete un alloggio.”
Non stava mentendo, si disse, mentre girava la pesante chiave nella toppa per serrare la porta. Davvero c’era un villaggio lungo la strada, e nel villaggio c’era una locanda. Il fatto che a piedi avrebbero impiegato tutta la notte per raggiungerlo era un dettaglio che non ritenne necessario fornire. Avvertì ancora su di sé lo sguardo terribile del moro, e quello dolce e dolente della sposa-bambina. Pareva sul punto di spezzarsi come lo stelo di un fiore.
“Lei non può più andare avanti!” esclamò l’uomo, e il prete accelerò il passo verso la canonica, senza degnarlo di replica, ma accertandosi con frequenti occhiate che per nessuna ragione lo seguisse. Solo quando fu abbastanza lontano per sentirsi al sicuro si voltò e li vide ancora lì, davanti al sagrato, mentre i primi fiocchi di neve cominciavano a cadere. Si augurò vivamente che per mezzanotte si sarebbero rimessi in cammino, ma per evitare rischi avrebbe chiesto ai vicini di accompagnarlo con i forconi alla messa di Natale.
***
La neve cadeva come un velo gentile a coprire il fango gelato. Mentre nelle case le famiglie consumavano la cena di Natale, bruciando i ceppi speciali conservati per riscaldare Gesù Bambino, lungo la strada il passo dei due stranieri si faceva sempre più lento. Si erano allontanati di nemmeno una lega dal villaggio. La ragazza era giunta al suo tempo e davvero non riusciva più ad avanzare sul terreno sconnesso.
L’uomo a suo fianco si dibatteva tra l’angoscia e la rabbia. Invano aveva bussato a tutte le case, cercando rifugio e ristoro. I pochi che avevano aperto la porta si erano affrettati a chiuderla loro in faccia, e più di uno li aveva minacciati se avessero osato provarci di nuovo. Se fosse stato solo ad affrontare i rigori dell’inverno non avrebbe sprecato nemmeno un’altra parola, nemmeno uno sguardo per quei senza Dio. Ma c’era lei, aggrappata al suo braccio come un piccolo uccello che rischiava da un momento all’altro di essere strappato via da una raffica di vento, e c’era il bambino nel suo grembo che non avrebbe potuto scegliere una notte peggiore per venire al mondo.
“Presto troveremo un riparo” le sussurrò incoraggiante, e lei lo gratificò con uno sguardo di assoluta fiducia, come se davvero gli credesse.
Il moro maledisse il cuore dei senza Dio, freddo quanto e più di quella notte che li ghermiva con i suoi artigli di gelo, duro come la loro terra dannata. Ricordava la casa in cui era cresciuto, bianca di polvere e sole nello splendore abbacinante del deserto. I muri esterni erano così caldi nel mezzodì che ci si sarebbe potuto cuocere sopra il pane. Perfino dopo il tramonto il ricordo di quel calore rimaneva a mitigare il velluto indaco della notte, e i fiori che sbocciavano tra i rampicanti di un verde che pareva nero, i calici resi turgidi dall’ardore diurno, si schiudevano diffondendo profumi inebrianti e stordenti sotto il cielo trapunto di stelle acuminate.
Nella terra dei senza Dio invece potevi solo augurarti che la notte fosse abbastanza buia da celare gli orrori che la luce del giorno ti costringeva ad affrontare. Non avrebbe dovuto restare in terra di Spagna più di quanto gli affari della sua gente non avessero richiesto. Non avrebbe dovuto trattenervi lei. Ma prima che potesse comprendere ciò che accadeva i senza Dio avevano cominciato a mostrarsi ostili. Il passaggio da una malcelata tolleranza alla dichiarata violenza si era attuato in un arco di tempo così breve da costringere molti di loro a lasciare le proprie case e i propri beni in fretta e furia, come se davvero dovessero fuggire per un crimine. E poiché la via del mare sembrava già preclusa, i porti controllati da chi da convivente e vicino ora era divenuto nemico, come molti dei suoi amici e compagni aveva scelto di varcare il confine con la terra dei Franchi. In quel momento, in quella notte, gli risultava difficile credere di aver compiuto la scelta migliore.
Qualcosa si mosse davanti a loro, in fondo alla strada. Tutti i sensi dell’uomo si allertarono, perché in una notte come quella solo i lupi potevano essere rimasti lungo la via che tagliava il bosco, e non necessariamente i lupi che avevano il pelo sul corpo. Per sua esperienza i lupi che avevano il pelo dentro e camminavano su due gambe erano molto più pericolosi. Fece per mettere mano alla propria arma, celata dalle pieghe del mantello logoro, ma per farlo avrebbe dovuto privare del sostegno la fanciulla al suo fianco. Così digrignò i denti, frugando con gli occhi l’oscurità che si levava dal terreno, rimescolandosi con quella che calava dal cielo, per identificare la possibile minaccia. Indovinò la sagoma di un cavallo, un’ombra appena più scura del buio della notte, e in quell’ombra occhi simili a braci ardenti scintillavano corruschi perfino a quella distanza. Montato in arcione sul cavallo dagli occhi accesi di fuoco infero si delineò un cavaliere. Avanzavano lenti lungo il terreno dissestato, e lui poteva quasi indovinare gli zoccoli possenti dell’animale stritolare i grumi di fango della strada, frantumare le lastre di ghiaccio putrido.
Impotente, ma pronto a combattere fino all’ultimo respiro per sé e per la compagna, innalzò una muta preghiera ad Allah.
Cavallo e cavaliere si erano arrestati. La neve aveva preso a cadere più fitta, ma sembrava incapace di fermarsi sul manto nero dell’animale, sulle vesti dello stesso colore di chi lo montava. Solo quando quest’ultimo sollevò la mano per far ricadere il cappuccio sulle spalle un vago chiarore emerse a interrompere la tenebra che li fondeva in un solo essere. A quella distanza l’uomo dalla pelle scura non poteva distinguere i lineamenti del cavaliere, ma solo i capelli biondi liberati dal tessuto.
“Che fate in mezzo alla strada a quest’ora di notte?”
La voce dello sconosciuto non tradiva alcuna minaccia, ma neppure un’autentica sollecitudine. Non aveva fatto altro che esprimere una constatazione. Non ricevendo risposta premette sui fianchi della sua cavalcatura e riprese ad avanzare.
“Non avere paura, mio amore” disse piano l’uomo alla fanciulla.
“Non ne ho, mio amato” fu la risposta appena sussurrata, e ancora una volta lui provò una stretta al cuore per la sconfinata fiducia che percepiva in quella voce.
Frattanto il cavaliere si era fermato nuovamente. Ora la neve accendeva i capelli chiari di un riflesso d’argento e la luna rivelava il suo volto. Lo straniero dalla pelle scura sussultò, perché quel volto non era quello di un uomo comune, non era quello di una donna: era entrambe le cose e nessuna. Erano due volti cuciti insieme da una sutura irregolare, un jinn e una uri uniti in un solo ambiguo, spaventoso sembiante.
La creatura in arcione parve subire il suo esame senza mostrare alcuna emozione. Fu il cavallo a tradire insofferenza, raspando il terreno con lo zoccolo micidiale e scrollando la folta criniera.
“Ti ho fatto una domanda. Comprendi quello che dico?”
Di nuovo quella voce, anche essa senza sesso, roca e dura, e nello stesso tempo musicale, come uno strumento meraviglioso intrappolato in una cava di rocce taglienti.
“Abbiamo tentato. Nessuno ci ha accolto” rispose l’uomo dalla pelle scura, soffocando la rabbia che l’ineluttabilità di quell’affermazione gli causava.
Lo sconosciuto sollevò lo sguardo al cielo, come se si aspettasse che da esso sarebbe disceso un segno che commentasse le parole del moro. Ciò non avvenne, e così fu lui a scendere da cavallo, con un movimento fluido, e atterrò con gli alti stivali sul fango della via.
L’uomo dalla pelle scura non esitò più. Lasciò il fianco della fanciulla, facendola arretrare alle proprie spalle, e portò la mano all’impugnatura della scimitarra.
Il cavaliere si fermò e alzò le mani fasciate dai guanti in segno di pace.
“Non ho ragione di aggredirvi. La ragazza ha bisogno di stendersi e riposare. Lungo quel sentiero, tornando verso il villaggio, c’è una stalla.”
“Perché dovrei fidarmi di te?” ringhiò il moro. Sebbene non avesse ancora estratto l’arma era evidente che non avrebbe esitato a usarla, e con tutte le proprie forze.
La donna cavaliere, perché ormai era evidente che la sconosciuta fosse una donna, nonostante il duplice aspetto, sospirò.
“Perché io non ho nulla da perdere, e tu hai ogni cosa.” A un breve richiamo il cavallo gigantesco avanzò verso i due stranieri. “Sali sopra Faucille con lei, io vi guiderò fino alla stalla. Ti darò le spalle, così se lo riterrai opportuno mi colpirai con la tua spada.”
L’uomo dalla pelle scura esitava, la mano ancora pronta ad estrarre l’arma. La fanciulla faceva capolino da dietro la sua spalla, spiando la sconosciuta.
“Bada, non ripeterò la mia offerta una seconda volta” riprese quest’ultima, spazientita. “Come ti ho già detto non ho motivo di aggredirvi, ma neppure di perdere tempo con voi.”
A quelle parole la ragazza scivolò da dietro le spalle del suo compagno, e si fece avanti, nonostante lui l’ammonisse a non farlo. Porse la mano alla donna, guardando il suo volto alieno e terribile senza paura, senza biasimo, senza compatimento.
La donna ricambiò lo sguardo con i due occhi diseguali, uno chiaro, l’altro scuro, poi sollevò lentamente la mano verso di lei e afferrò delicatamente le sue dita, attirandola verso il cavallo. Al suo compagno non restò che guardare mentre la sconosciuta la sollevava ponendola sulla sella dell’animale.
La stalla comparve all’improvviso tra il folto degli alberi. Se la loro guida non si fosse arrestata l’uomo dalla pelle scura non l’avrebbe nemmeno notata, tanto si integrava con il paesaggio. Poche tavole di legno ricoperte da fitto muschio fissate tra un muretto di rocce e una quercia secolare. A tentoni si avviò verso l’entrata, rischiando di incespicare nel sottobosco insidioso. Poi una luce verde si accese alle sue spalle. Si voltò allarmato verso la donna, dalle mani della quale era scaturito quel chiarore e la osservò mentre spargeva intorno all’ingresso della stalla e all’interno quella che sembrava sabbia luminescente. Dalla groppa di Faucille la giovane osservava i suoi movimenti, incantata, nonostante fosse visibilmente esausta. L’aria era gonfia di umidità, e la neve seguitava a cadere, ma quando la donna cavaliere ebbe finito tutta la stalla era circonfusa di una luce smeraldina, tenue, e che tuttavia riusciva a tenere lontane le tenebre.
“La paglia è asciutta, puoi prepararle un giaciglio, mentre io cerco di accendere un fuoco.” La donna era entrata nella piccola struttura, spolverandosi dalle mani gli ultimi granelli di sabbia luminosa. Il moro avrebbe voluto reagire con rabbia, intimarle di non osare impartirgli ordini, ma la verità era che tutto ciò che lei proponeva era sensato. Così alzò le braccia per aiutare la fanciulla a scendere, e la sostenne fino al pagliericcio, sul quale distese la coperta che portava avvolta nella bisaccia. Lei vi si lasciò cadere con un sospiro sfinito. I suoi occhi non perdevano di vista la donna cavaliere. Quando il suo compagno fece per alzarsi, dopo averle sfiorato i capelli con una carezza, lei lo trattenne.
“Dio nella sua infinita generosità ci ha mandato uno dei suoi angeli, per assisterci in questa notte” sussurrò. Lui avrebbe voluto richiamarla per quella blasfemia. Allah non avrebbe certo inviato un suo angelo nei panni di quella senza Dio. Ma si trattenne. Nella loro lingua la parola per indicare gli angeli era mala’ika, “aiutare e aiutare”. Che quella sconosciuta li stesse aiutando era evidente. Probabilmente stava salvando loro la vita.
Si chinò a baciare la fronte della fanciulla, prima di alzarsi. Forse quella donna non era Jibreel o un altro degli angeli più nobili, ma quello che stava facendo non era meno prezioso.
Fu mentre le prime fiamme iniziavano a crepitare dal cumulo di sterpi e ceppi raccolti davanti alla stalla che la ragazza gridò, accasciandosi sulla paglia, le mani sul ventre.
***
Poco prima di mezzanotte il prete del villaggio si azzardò a socchiudere la porta della canonica e a guardare fuori. Si stupì constatando quanta neve fosse caduta in così poco tempo. La strada che conduceva alla chiesa era completamente coperta da un soffice manto bianco. Vide che non vi era traccia dei due pagani, e quella constatazione, insieme al senso di sazietà che gli aveva portato l’oca arrosto, e alla vaga ebbrezza data dal vino, lo mise di ottimo umore. Umore che migliorò ulteriormente quando, aprendo le porte della chiesa, si avvide che solo un paio di candele si erano consumate del tutto e necessitavano di essere sostituite. Le altre, seppur ridotte a mozziconi, sarebbero arrivate alla fine della funzione, con buona pace dell’Abate e delle sue manie di grandezza. Non restava che aspettare i fedeli, che presto sarebbero usciti dalle case e sarebbero confluiti nel santo tempio per la funzione. Sarebbero stati tutti riscaldati dal cenone e animati dalla generosità, che si sarebbe manifestata con cospicue donazioni al momento dell’Offertorio. Quel pensiero alimentò ancora di più la sua letizia, poiché per il resto dell’anno i morti di fame che abitavano nei dintorni erano fin troppo spilorci nei suoi confronti. Quella sera, complice la luce gentilmente offerta dall’Abate, sarebbero stati sicuramente più propensi a donare. Forse era per raccogliere le offerte che stavano tardando così tanto…
Dopo aver indossato i paramenti liturgici tornò alla porta e la spalancò, lasciando che la luce delle candele si riversasse fuori. Ancora nessuno si stava avvicinando alla chiesa. Il prete aggrottò la fronte. Non solo non scorgeva le sagome famigliari dei contadini arrancare nella neve. Il villaggio sembrava deserto. Non una luce filtrava dagli usci, o dalle imposte socchiuse. Nessun eco di canti di Natale, nessun suono di ghironda a riempire l’aria. Né voci, né rumori. Eppure la mezzanotte era ormai prossima, e quei pitocchi sapevano bene che ci sarebbe voluto un po’perché prendessero tutti posto tra i banchi, accalcandosi come le bestie zotiche che erano!
Il buon umore scivolò via rapidamente, mentre il volto del prelato andava rabbuiandosi sempre di più, anche a causa del freddo gelido che entrava dalla porta spalancata. La chiuse con stizza, bofonchiando tra sé. Che andassero in malora, tutti quanti! Lui era lì, al suo posto, per fare il proprio dovere la notte di Natale! Se quei miserabili peccatori ci tenevano a bruciare all’inferno, disertando la messa della Vigilia, non era certo affar suo. O meglio, lo sarebbe stato quando si fossero presentati a invocare il suo perdono, a confessare la propria negligenza. E allora sì, sarebbe dipeso da lui decidere quanto e se essere generoso.
Quando le campane dell’abbazia lontana suonarono i dodici rintocchi, nessuno si era ancora presentato. Il prete fu tentato di spegnere tutte quelle dannate candele, serrare le porte, e tornarsene al calduccio nella sua canonica, a finire il vino che aveva degustato a cena. Riaprì le porte, e fu allora che udì il canto. Indistinto, lontano, solo un brusìo portato dal vento gonfio di cristalli di neve. Ma inequivocabilmente un canto.
Allora si arrabbiò davvero. Non paghi di aver defezionato la Messa di Natale e di aver lasciato lui completamente solo, quei maledetti si erano recati nei boschi, per celebrare chissà quali riti blasfemi e idolatri, come un tempo faceva la gente in quei boschi per festeggiare il Solstizio d’inverno. Questo no, non lo avrebbe tollerato!
Si gettò il caldo mantello foderato di pelo sulle spalle e si avviò, sprofondando nella neve, nella direzione da cui giungeva quel suono lontano. Prima ancora di essere uscito dal villaggio notò la luce, un raggio verde che sembrava sgorgare dal terreno e proiettarsi verso il cielo, nonostante la cupola degli alberi. Che prodigio era mai quello? Una volta un missionario venuto dal nord gli aveva parlato di luci verdi, blu, rosse, violette, che si dipanavano nel cielo sopra quelle terre da cui il giorno era bandito per mesi. Lui aveva creduto che il missionario fosse pazzo o ubriaco, o entrambe le cose, ma ora che scorgeva quella luminescenza innalzarsi sempre più nitida e splendente, quei racconti gli tornavano in mente. E più si avvicinava alla luce, affondando nella neve fresca, inciampando nelle radici e negli arbusti nascosti dal suo manto intatto, più avvertiva il canto crescere di intensità, molte voci unite ad intonare un canto di Natale.
Quando sbucò nella radura quel coro era talmente ampio e possente da dare l’impressione che fosse il bosco stesso a cantare. Ma non era così. Erano gli uomini, le donne e i bambini del villaggio, e non solo loro, molti altri, giunti forse dalle fattorie lungo la strada maestra, o dai villaggi vicini. Alcuni indossavano quelli che probabilmente erano i loro abiti più belli, altri sembravano essere usciti di casa in fretta e furia, afferrando il mantello. Tutti avevano in comune due cose: cantavano, e fissavano con sguardo sognante il centro della radura. Era lì la sorgente della luce verde, e per un momento il prete pensò che una stella fosse caduta dal cielo e stesse ardendo in mezzo alla neve. Poi mise a fuoco i contorni della piccola stalla. Erano le sue pareti di roccia e legno a brillare così, irradiando quello splendore verde tutt’intorno.
Afferrò uno dei suoi fedeli per un braccio, strattonandolo, e quello lo guardò dapprima con stupore, poi con incontenibile emozione.
“Padre Francois, avete visto? È il miracolo di tutti i miracoli!”
Adesso era lui ad essersi aggrappato al suo braccio, colto da incontenibile entusiasmo. Il prete se lo scrollò di dosso, facendosi strada tra la folla, che si faceva via via più fitta man mano che si avvicinava alla stalla. Notò con costernazione che molti di quegli uomini e donne recavano doni tra le braccia, e li depositavano davanti al fuoco che ardeva sull’ingresso della casupola, facendosi il segno della croce: forme di pane, pezzi di prosciutto, cestini di uova e mele, botticelle di vino, piatti di biscotti, secchi di latte. Tutte offerte che sarebbero appartenute di diritto a lui!
Spintonando e berciando a destra e a sinistra guadagnò la prima fila, e allora vide, oltre il mucchio di doni, oltre le fiamme che crepitavano, alimentate da nuova legna portata dai contadini, un quadro a dir poco singolare: un uomo in piedi, incorniciato dall’architrave appena abbozzato della stalla; ai suoi piedi, sul pagliericcio, una donna bellissima e raggiante, nonostante la stanchezza; nella mangiatoia un bambino avvolto in un panno candido come la neve, che stringeva i piccoli pugni cullato da quel coro di voci. Una rappresentazione fin troppo didascalica della Natività, non fosse stato che la pelle dell’uomo in piedi era così nera da sembrare indaco, che la giovane madre e il bambino avevano entrambi il volto e i capelli baciati dal sole di un paese lontano, e che non vi erano un bue e un asino a riscaldare col loro fiato il neonato, ma un cavallo nero con occhi rossi come le fiamme dell’inferno, e froge che vibravano a ogni respiro.
Il prete osservò la scena per un momento, poi volse lo sguardo verso i contadini e i pastori adoranti. Un qualche maleficio li aveva certo posseduti, ma come poteva riportarli alla ragione tutti quanti? Prima che potesse azzardare qualsiasi tentativo, avvertì su di sé uno sguardo bruciante. Si voltò e colse lo sguardo di una figura avvolta in un mantello nero, che lì per lì non aveva notato. Sostava accanto all’ingresso della stalla, una lunga spada sguainata posata a punta in giù nella neve, e sembrava vigilare sui presenti, come un angelo nero racchiuso in ali di tenebra. Tra le pieghe del cappuccio il prete poteva solo intravedere i suoi occhi, ma la percezione che ne ebbe gli bastò per sapere che non c’era altro che voleva vedere, altro che voleva sapere quella notte.
Inciampando nei piedi tornò sui propri passi, fendendo la folla. Anche quando riuscì a guadagnare il limitare della radura fu certo che gli occhi terribili di quel guardiano oscuro fossero ancora su di lui e che lo avrebbero perseguitato per molto, molto tempo.